Il bivio
Occorre maturare la consapevolezza che siamo giunti alla fine di una fase storica, indugiarvi ulteriormente rischia di essere letale.
Wolfgang Sachs nel “Dizionario dello Sviluppo” (edizioni Gruppo Abele 1998) propone di chiamare “era dello sviluppo” quel particolare periodo storico che ha inizio il 20 Gennaio 1949 quando Harri S. Truman, per la prima volta, dichiarò nel suo discorso inaugurale l’emisfero Sud “area sottosviluppata”. Subito dopo aggiunge: “Ciò che nasce in un dato momento, tuttavia, può in un momento successivo morire, ed è per questo, perché la storia ha posto fuori del tempo le sue quattro premesse, che l’era dello sviluppo conosce il suo declino”. La prima premessa a cui Sachs fa riferimento è la convinzione che gli Stati Uniti, e con loro l’occidente, si trovassero al vertice della scala evolutiva. Premessa spazzata via dalla crisi ecologica.
Eppure “l’era dello sviluppo” è recente e l’umanità ha trascorso molto tempo facendone “tranquillamente” a meno.
Mi ha colpito molto un’immagine che si trova nel libro di storia delle elementari di mia figlia. Tra gli attrezzi utilizzati in agricoltura dagli uomini del neolitico c’è un aratro di legno tirato e spinto a mano da due uomini. L’aratro disegnato non è molto dissimile da quello che conservo nell’aia e che i contadini di qui utilizzavano ancora cinquanta anni fa trainato da una coppia di buoi.
Nell’arco di circa diecimila anni abbiamo assistito alla sostanziale innovazione di aver attaccato i buoi all’aratro. Nell’arco di cinquanta-sessanta anni l’immane trasformazione avvenuta l’abbiamo sotto gli occhi: trattori mastodontici trainano aratri polivomeri in grado di affettare e rovesciare in poche ore intere pianure e colline, là dove fino a ieri coppie di buoi impiegavano settimane se non mesi per fare una lavorazione più superficiale.
Quindi si tratta di tornare indietro e rimpiangere un passato bucolico rigettando in toto la modernità?
No, assolutamente. Nessuno dice questo. Si tratta di prendere coscienza della radicalità e complessità dei problemi e cominciare a costruire vie d’uscita. Si tratta di comprendere che siamo ad un bivio come altre volte è capitato.
Varie civiltà si sono già trovate a questo bivio. Ce lo ricorda Laster R. Brown nel suo “Piano B.3.0”. Sei secoli fa gli islandesi realizzarono in tempo che l’eccessivo sfruttamento dei pascoli erbosi sugli altopiani stava causando una grave perdita di terreno. Gli allevatori si accordarono tra loro per calcolare quante pecore gli altopiani potessero sostenere e poi distribuirono le quote tra di loro così da preservare i loro pascoli. Esempio diametralmente opposto la civiltà sumera che nel IV millennio a.C. aveva sopravanzato ogni altra società precedente. Il suo ingegnoso sistema di irrigazione aveva permesso l’aumento della produzione agricola. Il controllo del sistema irriguo sumero richiedeva una sofisticata organizzazione sociale. I Sumeri fondarono le prime città e la prima lingua scritta. Ma c’era un difetto di “sostenibilità ambientale” nel progetto del sistema irriguo. Con l’andare del tempo, l’accumulo di sali minerali sui terreni portò ad una diminuzione del rendimento agricolo. A quel punto i Sumeri passarono alla coltivazione dell’orzo, una cultura che tollerava meglio la salinità. Questa scelta posticipò il declino della civiltà sumera, che curò il sintomo e non la causa della riduzione dei raccolti. Come crollò l’approvvigionamento di cibo declinò la civiltà.
Gli islandesi dimostrarono una “capacità politica” di individuazione e gestione del problema, cosa che non furono in grado di fare i Sumeri.
E desso? Cosa accadrà alla nostra civiltà?
Wolfgang Sachs nel “Dizionario dello Sviluppo” (edizioni Gruppo Abele 1998) propone di chiamare “era dello sviluppo” quel particolare periodo storico che ha inizio il 20 Gennaio 1949 quando Harri S. Truman, per la prima volta, dichiarò nel suo discorso inaugurale l’emisfero Sud “area sottosviluppata”. Subito dopo aggiunge: “Ciò che nasce in un dato momento, tuttavia, può in un momento successivo morire, ed è per questo, perché la storia ha posto fuori del tempo le sue quattro premesse, che l’era dello sviluppo conosce il suo declino”. La prima premessa a cui Sachs fa riferimento è la convinzione che gli Stati Uniti, e con loro l’occidente, si trovassero al vertice della scala evolutiva. Premessa spazzata via dalla crisi ecologica.
Eppure “l’era dello sviluppo” è recente e l’umanità ha trascorso molto tempo facendone “tranquillamente” a meno.
Mi ha colpito molto un’immagine che si trova nel libro di storia delle elementari di mia figlia. Tra gli attrezzi utilizzati in agricoltura dagli uomini del neolitico c’è un aratro di legno tirato e spinto a mano da due uomini. L’aratro disegnato non è molto dissimile da quello che conservo nell’aia e che i contadini di qui utilizzavano ancora cinquanta anni fa trainato da una coppia di buoi.
Nell’arco di circa diecimila anni abbiamo assistito alla sostanziale innovazione di aver attaccato i buoi all’aratro. Nell’arco di cinquanta-sessanta anni l’immane trasformazione avvenuta l’abbiamo sotto gli occhi: trattori mastodontici trainano aratri polivomeri in grado di affettare e rovesciare in poche ore intere pianure e colline, là dove fino a ieri coppie di buoi impiegavano settimane se non mesi per fare una lavorazione più superficiale.
Quindi si tratta di tornare indietro e rimpiangere un passato bucolico rigettando in toto la modernità?
No, assolutamente. Nessuno dice questo. Si tratta di prendere coscienza della radicalità e complessità dei problemi e cominciare a costruire vie d’uscita. Si tratta di comprendere che siamo ad un bivio come altre volte è capitato.
Varie civiltà si sono già trovate a questo bivio. Ce lo ricorda Laster R. Brown nel suo “Piano B.3.0”. Sei secoli fa gli islandesi realizzarono in tempo che l’eccessivo sfruttamento dei pascoli erbosi sugli altopiani stava causando una grave perdita di terreno. Gli allevatori si accordarono tra loro per calcolare quante pecore gli altopiani potessero sostenere e poi distribuirono le quote tra di loro così da preservare i loro pascoli. Esempio diametralmente opposto la civiltà sumera che nel IV millennio a.C. aveva sopravanzato ogni altra società precedente. Il suo ingegnoso sistema di irrigazione aveva permesso l’aumento della produzione agricola. Il controllo del sistema irriguo sumero richiedeva una sofisticata organizzazione sociale. I Sumeri fondarono le prime città e la prima lingua scritta. Ma c’era un difetto di “sostenibilità ambientale” nel progetto del sistema irriguo. Con l’andare del tempo, l’accumulo di sali minerali sui terreni portò ad una diminuzione del rendimento agricolo. A quel punto i Sumeri passarono alla coltivazione dell’orzo, una cultura che tollerava meglio la salinità. Questa scelta posticipò il declino della civiltà sumera, che curò il sintomo e non la causa della riduzione dei raccolti. Come crollò l’approvvigionamento di cibo declinò la civiltà.
Gli islandesi dimostrarono una “capacità politica” di individuazione e gestione del problema, cosa che non furono in grado di fare i Sumeri.
E desso? Cosa accadrà alla nostra civiltà?
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