Guerra e nonviolenza
Intervengo nel dibattito sulla guerra in Libia ripubblicando questa sofferta lettera a Barbara Grandi.
Era la Pasqua del 1999, già 12 anni fa. La scrissi dopo un incontro traumatico dell'associazione Langer dove Barbara uscì in lacrime perché l'associazione non aderì alle manifestazioni contro l'intervento in Kosovo.
Ricordo solo che da Gandhi a Lanza Del Vasto a Capitini e a tutti i teorici della nonviolenza, questa è strettamente legata alla ricerca della verità e assai lontana da atteggiamenti dogmatici di chi ritiene di avere la verità in tasca. Questo comporta il farsi attraversare dalle contraddizioni tanto della vita quotidiana che della storia. Ho conosciuto Alex alle assemblee degli obiettori fiscali alle spese militari, sono un obiettore di coscienza ed ho svolto il servizio sostitutivo civile. Ricordo l'autentico trauma provato quando Alex chiese l'intervento armato in Bosnia. A tanti anni di distanza la riflessione all'interno dell'area nonviolenta non è ancora conclusa.
Grazie a chi avrà la pazienza di leggere.
Pietro
(Lettere a Barbara Grandi in occasione della discussione, all’interno dell’Ass. Langer, sulla guerra in Kosovo).
Cara Barbara,
è la notte di Pasqua. La televisione ha appena trasmesso le prime immagini dei massacri che le milizie serbe stanno compiendo in Kosovo. Altre immagini ci mostrano decine di migliaia di profughi ammassati in strisce di terra delimitate da militari. C’è chi muore per il freddo. Un bicchiere d’acqua e un pezzo di pane significano salvezza, o meglio, sopravvivenza. In questo momento Belgrado e non so quali altri obiettivi sono sotto le bombe della Nato.
E’ possibile, in questa circostanza, provare a fare un discorso pacato ,di merito sul problema?
E’ molto difficile, ma è quello che voglio provare a fare. E’ un lusso che a questi chilometri di distanza ci possiamo e forse anche dobbiamo permettere.
Nominerò diverse volte Langer non per giustificare una posizione pro o contro intervento (mi ha dato fastidio chi ha citato parte di una frase per giustificare i bombardamenti, cancellando in un colpo tutta la sua storia e il travaglio che erano a monte di una posizione che chiedeva un intervento, in un preciso momento e a determinate condizioni, tra cui il mandato ONU, come mi ha dato fastidio chi ha citato il Langer costruttore di ponti per opporsi in maniera netta all’intervento armato dimenticando la sofferta posizione a proposito della Bosnia), ma per riprendere un nodo di riflessione che è politico e che riguarda tutta l’area pacifista e nonviolenta uno dei nodi principali che Langer ci ha lasciato, sul quale la riflessione e la discussione fino ad oggi è mancata, ma che non è più rimandabile.
E’ possibile, è giusto, o meglio, può essere necessario ricorrere alla forza delle armi in determinate circostanze?
La domanda non è nuova nel mondo della sinistra e neppure nell’area pacifista in genere ed è stato risposto di sì, a precise condizioni (rivoluzione, teologia della liberazione, subordinazione ad un diritto internazionale ecc.).
Questa domanda però diventa devastante, in quanto tabù, in un’area nonviolenta più ristretta e radicale di cui Langer faceva parte e alla quale sicuramente io, ma penso anche tu, facevo riferimento (Azione Nonviolenta, LOC, AAM Terra Nuova, Campagna OSM, ecc.). E’ una domanda devastante perché mette in gioco tutta la ricerca e la radicalità del pensiero. Come conciliare un possibile sì con l’obiezione di coscienza alle spese militari? Se a volte le armi possono servire, perché non finanziarle? Perché riconvertire l’industria bellica? Ecc.,ecc..
Infatti finora la risposta è stata categorica: no, il ricorso alle armi non può mai essere giusto.
Langer con la sua esperienza nella ex Juguslavia ha rotto questo tabù:
“Ecco perché occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche impiegare –accanto agli strumenti assai più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica, dell’incoraggiamento civile, dell’integrazione economica, dell’informazione veritiera…- la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli stati” Il viaggiatore leggero pag.284.
“Allora si dovrà aumentare consistentemente il numero e il mandato delle forze internazionali in Bosnia e confidare loro il compito non più di osservare e testimoniare soltanto, ma di liberare effettivamente gli accessi alle “zone protette” e proteggere realmente le città e le ragioni della convivenza (…) Nelle condizioni attuali, tuttavia, l’ONU dovrà chiedere a chi può –la Nato in buona sostanza- di svolgere tale compito. E non c’è ragione perché paesi come l’Italia o la Germania se ne sottraggano, se richieste dalle Nazioni Unite.” Il viaggiatore leggero pag.317.
Davanti a queste semplici, ma sofferte affermazioni c’è chi ha fatto finta di non sentire. C’è chi sostiene che è arrivato a dire questo perché stava male. C’è chi, addirittura, pensa e dice che Langer si sia ucciso per essere arrivato a queste conclusioni. Trovo queste osservazioni quanto meno superficiali se non addirittura stupide e offensive nei confronti di Langer.
Come uscire quindi da questa contraddizione?
Io credo che ci può aiutare un altro concetto caro all’area eco-pacifista : il concetto di limite.
I nonviolenti non devono rinunciare alla loro carica utopica, profetica. Devono però imparare ad accettare i limiti che la Storia impone loro.
Cerco di spiegarmi con un esempio che all’ultima riunione non ha avuto molto successo.
Un buon medico omeopata è certamente colui che riesce a capire la persona che ha davanti ed a trovare i rimedi più efficaci a seconda delle circostanze. Ma un buon medico omeopata è anche colui che sa arrendersi, davanti a determinate situazioni, e restituire la parola alla medicina convenzionale, prima che possano verificarsi complicazioni anche gravi alla persona che vogliamo curare.
Questo non significa che la medicina omeopatica, in quanto concettualmente agli antipodi dalla medicina convenzionale, debba arrendersi e non continuare la propria strada.
Allo stesso modo per chi si riferisce ad un pensiero nonviolento si tratta:
1. di continuare nella ricerca, sperimentazione per una risoluzione nonviolenta dei conflitti senza abdicare a priori alle armi
2. di individuare il momento in cui è il caso di farsi da parte, constatata l’inefficacia della propria azione.
Per quanto riguarda il primo punto credo che sia fondamentale continuare la progettazione e sperimentazione di una strategia di Difesa Popolare Nonviolenta fino ad arrivare alla costituzione di un corpo di interposizione civile europeo a suo tempo proposto da Langer al parlamento europeo.
Per quanto riguarda il secondo punto va analizzata ogni singola situazione.
Nel caso specifico di questa guerra vanno sottolineate alcune cose.
Per dieci anni c’è stata in Kosovo una dirigenza pacifica che ha attuato nei confronti del regime di Milosevic una resistenza nonviolenta, completamente ignorata e non sostenuta dai paesi democratici europei. Data la situazione circostante credo che vada annoverata tra le esperienze storiche da citare a favore per la costruzione di una strategia di Difesa Popolare Nonviolenta, altrimenti ben prima ci saremmo trovati davanti alle scene tragiche attuali.
E’ altresì vero che da un anno o due è cresciuto un esercito di liberazione, l’UCK, in netto contrasto con la linea di Rugova. Se l’esercito sia stato promosso o fomentato da Berisha ha più o meno importanza. Sta di fatto che ha raccolto consenso tra la popolazione albanese del Kosovo esasperata dalla prepotenza e i crimini delle bande militari e paramilitari serbe.
Per questo considero la responsabilità più grande dell’Europa in questo specifico conflitto (senza rifarsi all’inizio della disgregazione della ex Juguslavia ) l’aver abbandonato Rugova a se stesso più che la decisione di bombardare oggi.
Nel momento in cui giovani universitari Kosovari si arruolano nell’UCK avviene la sconfitta della lotta nonviolenta.
E’ in quel preciso momento che io mi sento impotente e non vedo sbocco.
Ma data questa situazione, cosa fare?
Continuare a predicare una pace sconfitta dalla realtà lasciando che i forti massacrino i più deboli?
Perché, cerchiamo di non essere ipocriti, le immagini tragiche di questi giorni erano in programma, forse i bombardamenti hanno impresso una accelerazione, ma questi sono stati e sono i metodi di Milosevic. E questo era prevedibile che accadesse. E’ a questo punto che io faccio una scelta, forse vigliacca, sicuramente non priva di contraddizioni, sicuramente di lusso, che è quella di non scegliere, ma di passare la parola.
Come il medico omeopata che per ragioni contingenti passa il paziente al medico convenzionale la nonviolenza politica deve avere l’umiltà di passare la parola alla politica tradizionale, compresa la possibilità di un intervento armato.
Ed è chiaro che non è questa la mia politica ed è una concezione diametralmente opposta di risoluzione dei conflitti.
Tale e quale la differenza tra omeopatia ed allopatia.
Il fatto che poi neppure la guerra sia efficace per risolvere questa drammatica situazione non può che ulteriormente disperarmi.
La valutazione sull’efficacia del tipo di intervento adottato apre un altro capitolo sul quale sinceramente mi sento poco attrezzato per una discussione. A lume di naso intuisco che per essere efficace l’intervento aereo doveva essere
accompagnato ad un intervento di terra. Ma qui il discorso si fa ancora più complicato e lungo.
Come puoi immaginare questa lettera sta avendo un lungo e tormentato travaglio, i giorni passano e non è più la notte di pasqua. E’ trascorsa una settimana intera e questi sabato e domenica sono stato a Forlì con Giovanni e Luigi all’incontro organizzato per definire le finalità della fondazione Alexander Langer. Come era prevedibile ciò che sta succedendo in Kosovo e l’intervento Nato sono stati occasione di ripetute e sofferte discussioni.
Parlando dopo pranzo con Franco Travaglini del paragone tra tipo di medicina e tipo di intervento lui lo ha continuato con le seguenti parole:- Un buon medico omeopata è colui che, esaurita la gamma dei rimedi a lui più congeniali, si rimbocca le maniche ed in prima persona opera da medico chirurgo convenzionale.-.
Questa affermazione mi ha colpito e mi ha aiutato in qualche modo a capire il senso di paralisi che mi sento addosso in questi giorni.
E’ vero che un medico omeopata è comunque un medico e porta con se un bagaglio di preparazione che gli può consentire un passaggio diciamo di strategia.
Questo non è altrettanto vero per buona parte dell’area pacifista e nonviolenta che, nata e cresciuta in contrapposizione alla logica militare, ne conosce le conseguenze nefaste, ma sostanzialmente ne ignora le regole.
Adesso capisco ed apprezzo di più il tentativo, fatto da Edi (e chi con lui) a Bolzano, di iniziare un dialogo con rappresentanti militari non guerrafondai per un confronto sulla risoluzione dei conflitti.
D’altro canto, se ben ricordo, i più grandi studiosi e teorici della difesa popolare nonviolenta (Gene Sharp) conoscono la strategia militare ed hanno contatti con teorici militari.
Forse anche in questa circostanza si tratta di costruire un ponte.
Altro punto drammaticamente alla ribalta è la, speriamo momentanea, contraddizione Diritto (nazionale ed internazionale)-Diritti Umani.
Un argomento forte del movimento pacifista di questi giorni è:- l’intervento Nato non risponde ad alcun mandato dell’Onu che con questa mossa viene definitivamente affondato, anzi l’intervento non corrisponde neppure al regolamento Nato in quanto nessun territorio dell’Alleanza è stato attaccato. Per quanto riguarda l’Italia, inoltre, c’è un problema di incostituzionalità -.
Dall’altro lato si giustifica l’intervento per difendere i diritti umani di centinaia di migliaia di Kosovari di etnia albanese, costantemente discriminati, perseguitati, disumanizzati, se così si può dire, fino a giungere al vero e proprio genocidio di questi giorni.
Anche qui: se da una parte è difficile pensare che siano le bombe a difendere i diritti umani dall’altra non possiamo appellarci all’Onu attuale quale garante di una legalità internazionale. Il meccanismo di veto del Consiglio di Sicurezza è profondamente antidemocratico. Un organismo di governo mondiale futuro non potrà fare a meno di un sistema di decisione a maggioranza. Se per ipotesi (che mi rendo conto lasciare il tempo che trova) questo organismo oggi esistesse, avrebbe preso la decisione di intervenire (in quanto i paesi in disaccordo sono la minoranza, ma con diritto di veto). Forse per il movimento pacifista sarebbe stata una guerra più “giusta”?
Ma, senza fare ipotesi, la guerra del Golfo in quanto benedetta dal consiglio di sicurezza, era più giusta?
Allora non possiamo lasciare massacrare un popolo in nome di un diritto internazionale paralizzato dall’evolversi della Storia. Si tratta invece di ricostruire un diritto internazionale che parta effettivamente dai diritti dell’uomo a tutte le latitudini e longitudini del globo, dal Ruanda al Kosovo, dal Kurdistan al Tibet ecc. ecc.
Il discorso si sta facendo lungo e mi rendo conto di rischiare di perdere la bussola.
Provo a concludere cercando di elencare le cose che credo siano utili in questo frangente e quelle assolutamente dannose.
Cose da fare:
1. Organizzare una solidarietà concreta con la marea di vittime di questa assurda storia. E’ una cosa che sta avvenendo spontaneamente sia a livello di volontariato, sia a livello istituzionale. E’ un buon segnale, uno dei pochi in questi tragici giorni.
2. Mantenere vivi contatti con le forze pacifiche dei fronti diversi; è l’indispensabile seme per una futura ricostruzione di legami, di convivenza.
3. Lavorare alla costruzione di un diritto internazionale basato in primo luogo sui diritti dell’uomo e svincolato da legami di subordinazione economica o militare.
4. Lavorare alla costruzione di un corpo di interposizione non armato da utilizzare nella prevenzione dei conflitti (e l’esperienza del Kosovo ha tanto da insegnarci), ma anche come strumento di vera e propria lotta nonviolenta.
5. Iniziare un dialogo con il mondo militare per disegnare una scala di interventi volti a prevenire e risolvere i conflitti, dove l’intervento armato è utilizzato come ultima spiaggia , il tutto coordinato quanto meno a livello europeo.
Cose da non fare:
1. Dividersi tra “filo serbi” pacifisti e “guerrafondai” interventisti.
Solo nel dialogo, può ancora esserci una speranza per la costruzione di un mondo migliore, con un minore tasso di violenza, con la possibilità di vivere senza ricorrere alla forza delle armi.
Si tratta di passare da una logica di conflitto tanto cara ad una certa sinistra ad una logica di lenta costruzione.
E per fare questo bisogna sapersi ascoltare a vicenda più che gridare forte la propria verità.
Potrà allora capitare di cogliere verità (senza virgolette, dice Carlo Ginzburg) in cose dette per sbaglio o appena sussurrate (nel bisbiglio, dice Erri De Luca), tra parole confuse e piene di contraddizioni.
Se riusciremo a liberare la nostra mente da pregiudizi offriremo terreno adatto affinché possa crescere qualcosa, in termini di pensiero, anche un po’ più strutturato e più consono ad accompagnarci negli anni confusi che abbiamo davanti.
Ti abbraccio forte Pietro
Era la Pasqua del 1999, già 12 anni fa. La scrissi dopo un incontro traumatico dell'associazione Langer dove Barbara uscì in lacrime perché l'associazione non aderì alle manifestazioni contro l'intervento in Kosovo.
Ricordo solo che da Gandhi a Lanza Del Vasto a Capitini e a tutti i teorici della nonviolenza, questa è strettamente legata alla ricerca della verità e assai lontana da atteggiamenti dogmatici di chi ritiene di avere la verità in tasca. Questo comporta il farsi attraversare dalle contraddizioni tanto della vita quotidiana che della storia. Ho conosciuto Alex alle assemblee degli obiettori fiscali alle spese militari, sono un obiettore di coscienza ed ho svolto il servizio sostitutivo civile. Ricordo l'autentico trauma provato quando Alex chiese l'intervento armato in Bosnia. A tanti anni di distanza la riflessione all'interno dell'area nonviolenta non è ancora conclusa.
Grazie a chi avrà la pazienza di leggere.
Pietro
(Lettere a Barbara Grandi in occasione della discussione, all’interno dell’Ass. Langer, sulla guerra in Kosovo).
Cara Barbara,
è la notte di Pasqua. La televisione ha appena trasmesso le prime immagini dei massacri che le milizie serbe stanno compiendo in Kosovo. Altre immagini ci mostrano decine di migliaia di profughi ammassati in strisce di terra delimitate da militari. C’è chi muore per il freddo. Un bicchiere d’acqua e un pezzo di pane significano salvezza, o meglio, sopravvivenza. In questo momento Belgrado e non so quali altri obiettivi sono sotto le bombe della Nato.
E’ possibile, in questa circostanza, provare a fare un discorso pacato ,di merito sul problema?
E’ molto difficile, ma è quello che voglio provare a fare. E’ un lusso che a questi chilometri di distanza ci possiamo e forse anche dobbiamo permettere.
Nominerò diverse volte Langer non per giustificare una posizione pro o contro intervento (mi ha dato fastidio chi ha citato parte di una frase per giustificare i bombardamenti, cancellando in un colpo tutta la sua storia e il travaglio che erano a monte di una posizione che chiedeva un intervento, in un preciso momento e a determinate condizioni, tra cui il mandato ONU, come mi ha dato fastidio chi ha citato il Langer costruttore di ponti per opporsi in maniera netta all’intervento armato dimenticando la sofferta posizione a proposito della Bosnia), ma per riprendere un nodo di riflessione che è politico e che riguarda tutta l’area pacifista e nonviolenta uno dei nodi principali che Langer ci ha lasciato, sul quale la riflessione e la discussione fino ad oggi è mancata, ma che non è più rimandabile.
E’ possibile, è giusto, o meglio, può essere necessario ricorrere alla forza delle armi in determinate circostanze?
La domanda non è nuova nel mondo della sinistra e neppure nell’area pacifista in genere ed è stato risposto di sì, a precise condizioni (rivoluzione, teologia della liberazione, subordinazione ad un diritto internazionale ecc.).
Questa domanda però diventa devastante, in quanto tabù, in un’area nonviolenta più ristretta e radicale di cui Langer faceva parte e alla quale sicuramente io, ma penso anche tu, facevo riferimento (Azione Nonviolenta, LOC, AAM Terra Nuova, Campagna OSM, ecc.). E’ una domanda devastante perché mette in gioco tutta la ricerca e la radicalità del pensiero. Come conciliare un possibile sì con l’obiezione di coscienza alle spese militari? Se a volte le armi possono servire, perché non finanziarle? Perché riconvertire l’industria bellica? Ecc.,ecc..
Infatti finora la risposta è stata categorica: no, il ricorso alle armi non può mai essere giusto.
Langer con la sua esperienza nella ex Juguslavia ha rotto questo tabù:
“Ecco perché occorre una credibile autorità internazionale che sappia minacciare ed anche impiegare –accanto agli strumenti assai più importanti della diplomazia, della mediazione, della conciliazione democratica, dell’incoraggiamento civile, dell’integrazione economica, dell’informazione veritiera…- la forza militare, esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli stati” Il viaggiatore leggero pag.284.
“Allora si dovrà aumentare consistentemente il numero e il mandato delle forze internazionali in Bosnia e confidare loro il compito non più di osservare e testimoniare soltanto, ma di liberare effettivamente gli accessi alle “zone protette” e proteggere realmente le città e le ragioni della convivenza (…) Nelle condizioni attuali, tuttavia, l’ONU dovrà chiedere a chi può –la Nato in buona sostanza- di svolgere tale compito. E non c’è ragione perché paesi come l’Italia o la Germania se ne sottraggano, se richieste dalle Nazioni Unite.” Il viaggiatore leggero pag.317.
Davanti a queste semplici, ma sofferte affermazioni c’è chi ha fatto finta di non sentire. C’è chi sostiene che è arrivato a dire questo perché stava male. C’è chi, addirittura, pensa e dice che Langer si sia ucciso per essere arrivato a queste conclusioni. Trovo queste osservazioni quanto meno superficiali se non addirittura stupide e offensive nei confronti di Langer.
Come uscire quindi da questa contraddizione?
Io credo che ci può aiutare un altro concetto caro all’area eco-pacifista : il concetto di limite.
I nonviolenti non devono rinunciare alla loro carica utopica, profetica. Devono però imparare ad accettare i limiti che la Storia impone loro.
Cerco di spiegarmi con un esempio che all’ultima riunione non ha avuto molto successo.
Un buon medico omeopata è certamente colui che riesce a capire la persona che ha davanti ed a trovare i rimedi più efficaci a seconda delle circostanze. Ma un buon medico omeopata è anche colui che sa arrendersi, davanti a determinate situazioni, e restituire la parola alla medicina convenzionale, prima che possano verificarsi complicazioni anche gravi alla persona che vogliamo curare.
Questo non significa che la medicina omeopatica, in quanto concettualmente agli antipodi dalla medicina convenzionale, debba arrendersi e non continuare la propria strada.
Allo stesso modo per chi si riferisce ad un pensiero nonviolento si tratta:
1. di continuare nella ricerca, sperimentazione per una risoluzione nonviolenta dei conflitti senza abdicare a priori alle armi
2. di individuare il momento in cui è il caso di farsi da parte, constatata l’inefficacia della propria azione.
Per quanto riguarda il primo punto credo che sia fondamentale continuare la progettazione e sperimentazione di una strategia di Difesa Popolare Nonviolenta fino ad arrivare alla costituzione di un corpo di interposizione civile europeo a suo tempo proposto da Langer al parlamento europeo.
Per quanto riguarda il secondo punto va analizzata ogni singola situazione.
Nel caso specifico di questa guerra vanno sottolineate alcune cose.
Per dieci anni c’è stata in Kosovo una dirigenza pacifica che ha attuato nei confronti del regime di Milosevic una resistenza nonviolenta, completamente ignorata e non sostenuta dai paesi democratici europei. Data la situazione circostante credo che vada annoverata tra le esperienze storiche da citare a favore per la costruzione di una strategia di Difesa Popolare Nonviolenta, altrimenti ben prima ci saremmo trovati davanti alle scene tragiche attuali.
E’ altresì vero che da un anno o due è cresciuto un esercito di liberazione, l’UCK, in netto contrasto con la linea di Rugova. Se l’esercito sia stato promosso o fomentato da Berisha ha più o meno importanza. Sta di fatto che ha raccolto consenso tra la popolazione albanese del Kosovo esasperata dalla prepotenza e i crimini delle bande militari e paramilitari serbe.
Per questo considero la responsabilità più grande dell’Europa in questo specifico conflitto (senza rifarsi all’inizio della disgregazione della ex Juguslavia ) l’aver abbandonato Rugova a se stesso più che la decisione di bombardare oggi.
Nel momento in cui giovani universitari Kosovari si arruolano nell’UCK avviene la sconfitta della lotta nonviolenta.
E’ in quel preciso momento che io mi sento impotente e non vedo sbocco.
Ma data questa situazione, cosa fare?
Continuare a predicare una pace sconfitta dalla realtà lasciando che i forti massacrino i più deboli?
Perché, cerchiamo di non essere ipocriti, le immagini tragiche di questi giorni erano in programma, forse i bombardamenti hanno impresso una accelerazione, ma questi sono stati e sono i metodi di Milosevic. E questo era prevedibile che accadesse. E’ a questo punto che io faccio una scelta, forse vigliacca, sicuramente non priva di contraddizioni, sicuramente di lusso, che è quella di non scegliere, ma di passare la parola.
Come il medico omeopata che per ragioni contingenti passa il paziente al medico convenzionale la nonviolenza politica deve avere l’umiltà di passare la parola alla politica tradizionale, compresa la possibilità di un intervento armato.
Ed è chiaro che non è questa la mia politica ed è una concezione diametralmente opposta di risoluzione dei conflitti.
Tale e quale la differenza tra omeopatia ed allopatia.
Il fatto che poi neppure la guerra sia efficace per risolvere questa drammatica situazione non può che ulteriormente disperarmi.
La valutazione sull’efficacia del tipo di intervento adottato apre un altro capitolo sul quale sinceramente mi sento poco attrezzato per una discussione. A lume di naso intuisco che per essere efficace l’intervento aereo doveva essere
accompagnato ad un intervento di terra. Ma qui il discorso si fa ancora più complicato e lungo.
Come puoi immaginare questa lettera sta avendo un lungo e tormentato travaglio, i giorni passano e non è più la notte di pasqua. E’ trascorsa una settimana intera e questi sabato e domenica sono stato a Forlì con Giovanni e Luigi all’incontro organizzato per definire le finalità della fondazione Alexander Langer. Come era prevedibile ciò che sta succedendo in Kosovo e l’intervento Nato sono stati occasione di ripetute e sofferte discussioni.
Parlando dopo pranzo con Franco Travaglini del paragone tra tipo di medicina e tipo di intervento lui lo ha continuato con le seguenti parole:- Un buon medico omeopata è colui che, esaurita la gamma dei rimedi a lui più congeniali, si rimbocca le maniche ed in prima persona opera da medico chirurgo convenzionale.-.
Questa affermazione mi ha colpito e mi ha aiutato in qualche modo a capire il senso di paralisi che mi sento addosso in questi giorni.
E’ vero che un medico omeopata è comunque un medico e porta con se un bagaglio di preparazione che gli può consentire un passaggio diciamo di strategia.
Questo non è altrettanto vero per buona parte dell’area pacifista e nonviolenta che, nata e cresciuta in contrapposizione alla logica militare, ne conosce le conseguenze nefaste, ma sostanzialmente ne ignora le regole.
Adesso capisco ed apprezzo di più il tentativo, fatto da Edi (e chi con lui) a Bolzano, di iniziare un dialogo con rappresentanti militari non guerrafondai per un confronto sulla risoluzione dei conflitti.
D’altro canto, se ben ricordo, i più grandi studiosi e teorici della difesa popolare nonviolenta (Gene Sharp) conoscono la strategia militare ed hanno contatti con teorici militari.
Forse anche in questa circostanza si tratta di costruire un ponte.
Altro punto drammaticamente alla ribalta è la, speriamo momentanea, contraddizione Diritto (nazionale ed internazionale)-Diritti Umani.
Un argomento forte del movimento pacifista di questi giorni è:- l’intervento Nato non risponde ad alcun mandato dell’Onu che con questa mossa viene definitivamente affondato, anzi l’intervento non corrisponde neppure al regolamento Nato in quanto nessun territorio dell’Alleanza è stato attaccato. Per quanto riguarda l’Italia, inoltre, c’è un problema di incostituzionalità -.
Dall’altro lato si giustifica l’intervento per difendere i diritti umani di centinaia di migliaia di Kosovari di etnia albanese, costantemente discriminati, perseguitati, disumanizzati, se così si può dire, fino a giungere al vero e proprio genocidio di questi giorni.
Anche qui: se da una parte è difficile pensare che siano le bombe a difendere i diritti umani dall’altra non possiamo appellarci all’Onu attuale quale garante di una legalità internazionale. Il meccanismo di veto del Consiglio di Sicurezza è profondamente antidemocratico. Un organismo di governo mondiale futuro non potrà fare a meno di un sistema di decisione a maggioranza. Se per ipotesi (che mi rendo conto lasciare il tempo che trova) questo organismo oggi esistesse, avrebbe preso la decisione di intervenire (in quanto i paesi in disaccordo sono la minoranza, ma con diritto di veto). Forse per il movimento pacifista sarebbe stata una guerra più “giusta”?
Ma, senza fare ipotesi, la guerra del Golfo in quanto benedetta dal consiglio di sicurezza, era più giusta?
Allora non possiamo lasciare massacrare un popolo in nome di un diritto internazionale paralizzato dall’evolversi della Storia. Si tratta invece di ricostruire un diritto internazionale che parta effettivamente dai diritti dell’uomo a tutte le latitudini e longitudini del globo, dal Ruanda al Kosovo, dal Kurdistan al Tibet ecc. ecc.
Il discorso si sta facendo lungo e mi rendo conto di rischiare di perdere la bussola.
Provo a concludere cercando di elencare le cose che credo siano utili in questo frangente e quelle assolutamente dannose.
Cose da fare:
1. Organizzare una solidarietà concreta con la marea di vittime di questa assurda storia. E’ una cosa che sta avvenendo spontaneamente sia a livello di volontariato, sia a livello istituzionale. E’ un buon segnale, uno dei pochi in questi tragici giorni.
2. Mantenere vivi contatti con le forze pacifiche dei fronti diversi; è l’indispensabile seme per una futura ricostruzione di legami, di convivenza.
3. Lavorare alla costruzione di un diritto internazionale basato in primo luogo sui diritti dell’uomo e svincolato da legami di subordinazione economica o militare.
4. Lavorare alla costruzione di un corpo di interposizione non armato da utilizzare nella prevenzione dei conflitti (e l’esperienza del Kosovo ha tanto da insegnarci), ma anche come strumento di vera e propria lotta nonviolenta.
5. Iniziare un dialogo con il mondo militare per disegnare una scala di interventi volti a prevenire e risolvere i conflitti, dove l’intervento armato è utilizzato come ultima spiaggia , il tutto coordinato quanto meno a livello europeo.
Cose da non fare:
1. Dividersi tra “filo serbi” pacifisti e “guerrafondai” interventisti.
Solo nel dialogo, può ancora esserci una speranza per la costruzione di un mondo migliore, con un minore tasso di violenza, con la possibilità di vivere senza ricorrere alla forza delle armi.
Si tratta di passare da una logica di conflitto tanto cara ad una certa sinistra ad una logica di lenta costruzione.
E per fare questo bisogna sapersi ascoltare a vicenda più che gridare forte la propria verità.
Potrà allora capitare di cogliere verità (senza virgolette, dice Carlo Ginzburg) in cose dette per sbaglio o appena sussurrate (nel bisbiglio, dice Erri De Luca), tra parole confuse e piene di contraddizioni.
Se riusciremo a liberare la nostra mente da pregiudizi offriremo terreno adatto affinché possa crescere qualcosa, in termini di pensiero, anche un po’ più strutturato e più consono ad accompagnarci negli anni confusi che abbiamo davanti.
Ti abbraccio forte Pietro
Commenti
Posta un commento