Perché al bivio non scegliamo la strada che ci porta alla sopravvivenza?

Dicevo del bivio: una strada, quella già percorsa dai Sumeri, ci porta verso la fine della società che conosciamo, l'altra, quella degli islandesi, ci porterebbe a continuare ad esistere.

Quando ci troviamo sull’orlo di un baratro, fermarsi e retrocedere è la cosa più naturale e sensata che ciascuno fa normalmente.
Perché a livello politico e sociale non è così?
Perché non siamo in grado di separare il termine “sostenibilità”, (che va declinata sicuramente nei suoi tre aspetti: ambientale, sociale ed economica) al termine “sviluppo”?
Perché al termine, sicuramente provocatorio, “decrescita” gli stessi promotori devono affrettarsi ad aggiungervi “serena” o “felice”, pena non essere presi nemmeno in considerazione?
Io credo che la risposta stia nel conflitto tra la semplicità della percezione dell’individuo e la complessità del sistema che abbiamo messo in piedi.
Se torniamo agli esempi di Laster R. Brown la cosa mi sembra abbastanza evidente. Gli allevatori avevano a portata di percezione il disequilibrio che si andava creando, i Sumeri, società più complessa, no. Hanno tentato di dare una risposta alla parte emergente del problema (un po’ come chi oggi propone il nucleare per risolvere il problema dei cambiamenti climatici e dell’esaurimento delle fonti fossili), ma non avevano più la capacità di comprenderne le cause ed individuare cambiamenti sociali strutturali per risolverlo alla radice.
Oggi, come singoli individui, cresciuti nel mito dello sviluppo e della crescita, ma anche nella sostanziale realtà della società dei consumi ci è difficile pensare che si possa stare meglio con meno. Che si possa stare meglio consumando meno. Eppure basterebbe rientrare, con la ricchezza di tutte le conoscenze (scientifiche e tecniche) ed esperienze acquisite, in una logica circolare abbandonando la freccia lineare univoca dello sviluppo.
Basterebbe guardare alla natura con altri occhi ed inserirsi nuovamente nei cicli che ci propone. Basterebbe ridimensionare la logica della competizione a vantaggio di una logica di solidarietà. Solidarietà (fraternità), è questa terza parola dimenticata della Rivoluzione Francese, che pone l’accento sulla relazione più che sull’oggetto, l’unico possibile valore fondante di questo inizio millennio. Pensiamo un po’ al secolo scorso: cosa non è stato fatto in nome della libertà su un fronte ed in nome dell’uguaglianza sull’altro. Poi venne un papa polacco e la sua Polonia riuscì a far crollare il muro che divideva le due parole con la cenerentola dimenticata: “Solidarnosc”. Non ci può essere riparazione, cura, senza fraternità. Troppo buonista? Troppo religioseggiante? Può darsi. Ma non vedo alternative. Anche la “conversione ecologica” di cui parlava Langer non ha avuto ancora successo forse per questo richiamo. Eppure è assai meno ostica e più digeribile della “decrescita”.

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